Motivi per cui è assolutamente necessario piangere #4

(Seriamente, è importante che si legga l’ultimo paragrafo, soprattutto per i miei coetanei, sul resto si può decisamente sorvolare.)
#1, #2, #3

Essendo nata in una famiglia numerosa, piena di giovani zie sostanzialmente nulla facenti e nonne in pensione, all’asilo preferii le gite al mare. E loro acconsentirono.
Mi si dice, io non mi ricordo, che il primo giorno di asilo, quando a occhio e croce dovevo avere circa tre anni, iniziai a urlare come una matta che erano tutti stupidi, quelli dell’asilo. Fatto singolare, dice mia mamma, di solito i bambini piangevano e chiedevano della mamma. E le maestre dell’asilo, dice sempre mia madre, erano preparate, avevano studiato, si erano formate per potere rispondere ai bambini che piangevano e chiedevano della mamma non a quelli che si mettevano a urlare e correre per l’asilo come degli ossessi dicendo “sono tutti stupidi, aaaaaaaaaaaaa, sono tutti stupidi aaaaaa”. Quindi, la mia famiglia tutta riunita, preso atto dei miei evidenti problemi mentali, decise che era giusto lavare i panni sporchi in casa propria, e non andai più all’asilo. Ritardando così il mio incontro con il prossimo, che non fossero parenti e cugini e i figli fighi, loro all’asilo ci andavano, degli amici fighi dei miei genitori, ma soprattutto il mio incontro con le matite. Le mie giornate passavano, infatti, ad aspettare davanti al cancello della casa di mia nonna, da cui passava tutta la città, che lei finisse di prepararmi da mangiare. Poi mi sedevo in uno sgabello triste triste, che ancora custodisce gelosamente, a aspettare che il tempo passasse, fino a quando non veniva a prendermi l’altro nonno per giocare insieme a scacchi e andare a vedere il mare mentre lui mi raccontava delle storie incredibili, nel senso di poco credibili, che lo vedevano come eroico protagonista.
In tutto questo, gli intelligentoni miei consanguinei, non si erano accorti che gli altri bambini oltre a sviluppare capacità relazionali sapevano già tenere in mano una matita e disegnare, fare le casine, scrivere il proprio nome e cose così. Io no, ovviamente. Nessuno si era preoccupato di insegnarmi queste cose, ma si erano tanto impegnati nell’inculcarmi nella testa che dire “sono tutti stupidi, aaaaaaaaaaa, sono tutti stupidi aaaaaaaa” fosse proprio dei bambini cattivi. E infatti quando mi portarono a scuola, il primo giorno, io, che bambina cattiva non volevo esserlo, mi ricordai di questa cosa e non lo urlai ai quattro venti, per quanto lo pensassi vedendo tutti quei bambini che piangevano per non si sa bene quale motivo.
(che poi, ma i venti sono solo quattro?)

Solo che a scuola si facevano delle cose strane tipo prendi la matita e scrivi. Già.  Nella fase prendi la matita e tienila in mano avevo dei problemi piuttosto seri. La fase successiva del scrivi era per me #misterodellafede.
E tutti si stupivano di questa cosa. E io piangevo non tanto per il fatto che non sapevo tenere una matita in mano, ma del fatto che tutti si stupivano,  e poi del fatto che dovevo stare tutto il tempo con dei bambini odiosi, nessuno sapeva giocare a scacchi, e una maestra odiosa che anche lei non sapeva giocare a scacchi. E in più mi mancava il mio babbo. E dovevo portarmi gli occhiali perché mi veniva il mal di testa a guardare tutti quei quaderni con quelle righe enormi. E tutto mi prendevano in giro per gli occhiali, che tra l’altro erano fighissimi. Ma perché si deve prendere in giro uno perché ha gli occhiali? Un anno terribile.

Quindi il fatto di cambiare scuola alla fine del primo anno delle elementari per me non fu altro che una gioia.

Se non fosse che mi mandarono in una scuola di musica. La più prestigiosa della città. Funzionava così: la mattina i bambini imparavano cose stupide tipo poesie a memoria e la storia dei fenici, e il pomeriggio imparavano a suonare ciascuno il proprio strumento.  E niente, a mia madre piaceva l’idea che io mi mettessi a suonare il piano. E anche a me piaceva, l’idea. L’amica pianista di mia madre era una figa, e aveva delle belle mani. Durai esattamente quanto dura un gatto in tangenziale ( questa è una citazione poco colta, ma pur sempre una citazione). Non ho orecchio, non ho ritmo, non ho niente. Più che altro mi immaginavo di smontare il piano mentre cercavano di insegnarmi come si faceva a suonarlo.

Quindi, per farla breve, nel giro di due mesi, ma anche meno appartenevo alla casta potentissima dei trombati della musica composta da me e me (all’interno della mia classe), e avevo il pomeriggio libero per guardarmi Solletico e interessarmi di cose a cui nessuno era interessato.

I miei genitori, che sono persone sensibili, rendendosi conto di quanto l’ambiente mi fosse totalmente alieno, e di questo si sono resi conto perché parlavo spesso di alieni e a volte avevo  incontri ravvicinati del terzo tipo, cercarono di farmi cambiare scuola. Ma io mi opposi. Mi piaceva. Non la scuola, cioè, boh, forse. Ma mi piaceva il fatto che il mio compagno di banco tale R (che sta per Romeo, lo scrivo perché ha un nome bellissimo e me ne infischio della privacy) avesse un violoncello e che tutte le mattine venisse a scuola col violoncello. Un violoncello da bambini così bello. E poi c’erano un sacco di violini. E trombe. Chitarre. Flauti. Il pianoforte non potevano portarselo in giro, giacché, mi ricordo, che al maestro che insegnava pianoforte non piacevano le tastiere. E tutti parlavano di quanto fosse difficile fare un lacchezzo piuttosto che un altro. E io non ci capivo niente. E lo trovavo bellissimo. E poi mi mettevo a piangere ogni volta che facevano i concerti, uno al mese, forse  due, per fare vedere ai genitori e urbi et orbi quanto fossero diventati bravi. Lo trovavo bellissimo, mi sentivo il cuore gonfiarsi e piangevo teneramente.

Ora, io quando penso a violoncello mi ricordo sempre di Romeo, e sono ormonalmente predisposta al pianto. E l’altro giorno per caso sfogliando un po’ Wikipedia sono finita sulla pagina di Vedran Smailović, “il violoncellista di Sarajevo”.  Colui, cioè, che per 22 giorni, dopo avere visto, dalla finestra di casa, una granata uccidere 22 persone in fila per il pane , ha suonato l’Adagio in sol minore di Albinioni nella Sarajevo assediata,  e poi ha suonato ancora nei funerali, per le strade. Per non perdere l’umanità, ha detto.
E mi si è riempito il cuore, come una mongolfiera che scoppia di elio, e mi è venuto da piangere.

(avevo una maglia viola con sopra Maggie Simpson)

18 pensieri su “Motivi per cui è assolutamente necessario piangere #4

  1. Inizio con una puntualizzazione. Per me l’ultimo paragrafo, che ho letto per primo, stante il tuo icipit, è “(avevo una maglia viola con sopra Maggie Simpson)” , alchè ho pensato “questo non è esattamente un motivo per piangere, se si ha qualcosa d’altro da mettersi, ma ci sarà qualcosa di più”. Ed infatti c’era, come sempre in quello che scrivi.
    Il *penultimo* paragrafo, è un bellissimo motivo, grazie per avercelo rivelato.

    PS.
    pensavo che solo i serial killer e le persone come me girasserero a caso per wikipedia. Ma forse sei una serial killer.

    1. Sì, lo so. C’ho pensato anche io, poi ho anche pensato che mi stava troppo fatica modificare il testo. 🙂

      Sono senza dubbio una serial killer.

  2. Quanti tuoi coetanei leggendo quell’ultimo paragrafo capiranno il perchè è importante farlo?
    La speranza è tutti!
    Comunque secondo me sul resto non si poteva sorvolare.
    Io quella cosa del tutti stupidi la pensavo alle scuole medie!

      1. Non voglio essere scontato o sembrare “vecchio” (anche perché non lo sono :-)) ma ormai va così: qualsiasi cosa ci mettono davanti noi la guardiamo ma non la osserviamo, non ne traiamo emozioni, non ne ridiamo o piangiamo, non ci ragioniamo.
        Vedi morire gente davanti a te e pensi a farci un filmino o mettere le foto da qualche parte. E basta.
        Dentro di te non resta niente.
        Dentro quel violoncellista invece qualcosa si è mosso, si è rotto, è rimasto o nato qualcosa che lui ha dovuto buttare fuori.
        Noi oggi non buttiamo niente fuori, ecco.

  3. Fatj, i venti principali della rosa dei venti sono quattro.
    Non so con quale apertura scacchistica iniziare con te, se con una di gioco aperto o con una classica difesa francese.
    Hai un talento particolare e quando scrivi adesso ti immaginerò con la forma di un violoncello e una maglietta viola, oppure con una forma da maglietta corta e un violoncello viola.

    1. Mi piace come mi vedi. Anzi, vorrei che tutti mi vedessero così. 🙂

      Ah! Enzo, tra l’altro mi sono scordata di risponderti nel tuo spazio, in realtà perché un po’ me ne vergognavo, ma sì, non ho lentiggini sul volto, ne ho un po’ sulla schiena e nel posto che piace a te. 😉

      Shhhhh! 🙂

  4. Sì. Ora, io sto studiando molto il discorso emozioni e non sempre in una chiave prettamente positiva, per come si intende il positivo classicamente. Dato che non sono arrivata a nessuna conclusione mi taccio su questo. Penso, però, questo lo posso dire, che quando vivi situazioni come quella è tutto amplificato forse si è più vicini alla verità delle cose, sempre che una verità delle cose ci sia.

    Quello che colpisce me, e di questo parlerò penso molto presto, è che in situazioni di guerra o più in generale di emergenza ci si abbruttisce, ed è in queste situazioni che emerge netta la necessità di arte, di meraviglia, di poesia. Solo per vedere un po’ più in là dell’emergenza del momento.

    Ah, ti ringrazio un sacco dell’accortezza di non avere usato l’espressione “al mondo d’oggi”. 😛

    1. A volte rimane rabbia, una rabbia che ti può portare a perderti. Altre volte ti accorgi che quella rabbia ti è servita per capire che non puoi permettere che cose simili accadano, stravolgendoti, portandoti a far cose che per te stesso non avresti mai fatto. Se sei un un ” Uomo ” e un violoncellista, usi quella tua abilità per diffondere la tristezza, ma non solo, anche la forza della speranza, qualunque essa sia. Il dolore ti mangia dentro, ma ti rende forte e se sei in grado di reagire e di riuscire a far sognare anche solo un’altra persona, allora si che sei in grado di cambiare il mondo, o almeno, ciò che ti circonda.

    2. Ma quel “ti ringrazio un sacco dell’accortezza di non avere usato l’espressione “al mondo d’oggi” era riferito a me?
      Ognuno di noi potrebbe essere il violoncellista, quello che ha visto lo vediamo anche noi, tutti i giorni.
      È vero che certe situazioni amplificano le emozioni ma è anche vero che spesso queste emozioni non nascono per niente.
      Probabilmente abbiamo perso il senso della meraviglia.

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