Conversioni periferiche

Mia madre mi racconta sempre un sacco di storie. Ora che ci vediamo meno, e che io non abito più in Toscana, si sente in dovere di aggiornarmi anche su quel che accade nell’adorata provincia fiorentina. L’altra sera, a cena, con fare eccitato e voce divertita mi ha raccontato di queste due persone, a me sconosciute, che hanno fatto un viaggio di un mese in Arabia Saudita. Buon per loro – le ho detto. Aspetta – ha detto – sono tornate tutte velate! [silenzio compiaciuto tipico di chi sa di aver tirato fuori un colpo di scena] Dicono di essere contente, ma a me sembra strano. La cosa ha creato un certo subbuglio, ti puoi immaginare, comunque la signora M. ha provato a parlarci e per farle ritornare sulla retta via ha usato due argomenti:

1) “ma noooooooooo, t’hai dei capelli così belli, oh che peccato l’è?!

2)”Ma un ti pizzica la testa con codesto coso?”

È sempre così nelle storie che racconta mia madre, a un certo punto tira fuori delle cose assurde, le dice con un tono terribilmente serio, poi subito dopo scoppia in una risata contagiosa, e io rido con lei.

A proposito di rientri

La mia giovanissima mamma ha avuto un periodo della sua vita in cui, finito di fare le sue faccende, si metteva alla finestra a guardare fuori, aspettando che arrivasse qualcuno, spesso mio padre, ma a volte mia nonna, mio nonno, zii, amici. Io, che ricordo sempre troppe poche cose, ho chiara nella mia testa l’immagine di mia madre di spalle che sposta con la mano le tende bianche della cucina e guarda fuori.

Quando scorgeva qualcuno all’orizzonte diceva “è arrivato x”, con più o meno euforia a seconda di chi era x, e io andavo accanto a lei a vedere x avvicinarsi. Aspettavamo così i nostri ospiti e aprivamo la porta e io, che ricordo sempre troppe poche cose, ricordo i calorosi sorrisi di mia madre che dava il benvenuto o il bentornato e la gioia che provavo quando qualcuno tornava a casa nostra.

Adesso mia mamma non guarda più fuori dalla finestra perché nessuno arriva all’improvviso, senza avvisare, e forse perché è un po’ stanca.

***
L’altro giorno, mentre cercavo di capire quale delle nuove chiavi aprisse la porta di casa, ho pensato al fastidio che provo quando rientro a casa e nessuno mi aspetta alla porta perché giustamente in cucina o altrove. Ho pensato ai vari “ma non ce le hai le chiavi?!!” urlati al citofono con fastidio, tutte le volte che io suono per annunciare il mio arrivo. Ho pensato alla dolcezza dello sguardo con cui tutte le volte, tutte le volte, mia madre mi aspettava – e aspetta. “Erdhe motre e mamit?” “Sei arrivata, amore mio?”- traduciamolo così. E ho capito che tra le cose che voglio ricordarmi di essere da grande c’è il dolce sorriso di un bentornato.

A proposito di leader

Tra le storie preferite di mio padre al primo posto, senza dubbio alcuno, il racconto delle ore successive alla notizia della morte di Enver Hoxha. La dipartita del leader gli procurò così tanto dolore che gli venne voglia di abbracciare e baciare mia madre e ridere con lei come non aveva mai fatto. Andò di corsa a casa sua, attraversando la città deserta e sorridendo incredulo a tutti i lamenti e i pianti che inondavano le strade. Mio nonno Xhebro gli aprì la porta e con lo sguardo lo rimproverò per il sorriso che cercava di mascherare, ma aveva stampato in faccia. Seduti a tavola c’erano i miei zii molto preoccupati e ansiosi per il futuro tremendo che aspettava l’intero popolo, qualcuno piangeva. Mio padre salutò tutti, cercando di essere il più serio possibile, poi si scusò e andò in bagno, dove si fece la più grande risata della sua vita – almeno così sostiene.

A proposito di giorni caldi

Fa molto caldo oggi e mi è tornato in mente un giorno torrido di quasi 20 anni fa. Noi cuginetti eravamo tutti insieme nel cortile della vecchia casa di mia nonna e aspettavamo che fosse tutto pronto per andare al mare. Avevamo i sandali, il costumino e tanto buon umore. Qualcuno dei miei cugini per riempire l’attesa ci disse che aveva visto proprio quel giorno un signore con il cappotto passeggiare per il suo quartiere, noi altri, dopo un momento di iniziale scetticismo, iniziammo a ridere e a prendere in giro il vecchio così scemo da indossare un pesante cappotto in un giorno così torrido. Ahahaha e ihihih.

Mio padre ascoltò quella storia molto arrabbiato per le nostre risate e provò a spiegarci delle cose fino a quando non gli dissero “vabbè zio, scommetto che tu non andresti mai in giro adesso con il cappotto”; a quel punto, prese uno dei cappotti di suo padre e disse “forza andiamo al mare ché è tardi”.

Quando era mio padre a portarci al mare ci mettevamo tutti in fila indiana dal più piccolo al più grande e marciavamo dietro di lui con l’ombrellone. Così quel giorno marciammo dietro a un signore con il cappotto e l’ombrellone un giorno rovente di 20 anni fa.

A proposito dei curriculum

Che cos’è necessario? E’ necessario scrivere una domanda, e alla domanda allegare il curriculum.

A prescindere da quanto si è vissuto è bene che il curriculum sia breve.

È d’obbligo concisione e selezione dei fatti. Cambiare paesaggi in indirizzi e malcerti ricordi in date fisse.

Di tutti gli amori basta quello coniugale, e dei bambini solo quelli nati.

Conta di più chi ti conosce di chi conosci tu. I viaggi solo se all’estero. L’appartenenza a un che, ma senza perché. Onorificenze senza motivazione.

Scrivi come se non parlassi mai con te stesso e ti evitassi.

Sorvola su cani, gatti e uccelli, cianfrusaglie del passato, amici e sogni.

Meglio il prezzo che il valore e il titolo che il contenuto. Meglio il numero di scarpa, che non dove va colui per cui ti scambiano. Aggiungi una foto con l’orecchio in vista.

È la sua forma che conta, non ciò che sente. Cosa si sente? Il fragore delle macchine che tritano la carta.

(Wieslawa Szymborska, poesia tratta da Vista con granello di sabbia,  a cura di Pietro Marchesani, Adelphi.)

A proposito di migrazioni

Mi sono ricordata oggi, che è il 4 marzo, che dietro a una delle foto che mi ritraggono piccina e in una specie di tuta aerospaziale* c’è scritto “4.3.91 Oggi mio zio è partito per l’Italia e io gli mando un bacio. Ciao zio ***** ci vediamo presto”. Affinché non mi si attribuiscano anni che non ho, all’epoca io non sapevo certo scrivere, e non servono fini grafologi per verificare che quella non è la mia scrittura.

Non ho nessun ricordo di quel giorno, ho solo storie non mie. La mia preferita è questa versione**: tuo zio stava tagliando l’erba dello stadio Flamurtari (glorisa squadra di Valona), poi è arrivato il suo amico D, lo conosci?, e insomma gli ha detto “io parto per l’Italia, c’è una nave” e tuo zio ci ha pensato un attimo e ha detto “vaffanculo anche io parto per l’Italia”, così si sono imbarcati e poi niente sono arrivati in Italia. Noi invece, molto preoccupati per le sofferenze dell’emigrazione, abbiamo preso tutti voi bambini e siamo andati a farvi le foto da mandare a tuo zio che però, quando gli abbiamo chiesto se le voleva, ha detto di no.

*una strana perversione di mia madre che non ho mai capito, ho foto di me in tuta aerospaziale a tutte le età: Fatjona in tuta aerospaziale, 1988, 1989,1990, 1991, 1992, 1993 etc. etc.

**Esistono una marea di versioni di questa storia, ognuno ha la sua, il punto di maggior discordia è sul momento prima dell’arrivo di D (in tutte le versioni arriva D): zio ***** stava tagliando l’erba? si stava allenando? era a casa a dormire? Nessuno lo può sapere, del resto zio ****** non hai mai voluto raccontare come sono andate veramente le cose,  ma  ho scoperto oggi  che Repubblica ne parlava così.

 

 

A proposito dell’ottusa e disperata aggressività dei venditori di contratto porta a porta.

Sono Pada dell’Iren ha detto il mio coetaneo, vestito tutto per bene, rasato, ben pettinato, con un profumo così forte da sfondarmi le narici- deve essere una specie di strategia di marketing sensoriale, ho pensato, qualcuno deve aver detto “ah dimenticavo, ragazzi, mettetevi un profumo deciso e STENDETELI TUTTI!”. Mi faccia vedere le sue bollette- mi ha detto. Sono Pada dell’Iren, mi faccia vedere le sue bollette. Non è questione di interesse, signora- ha detto- mi deve fare vedere le sue bollette. Sono Pada dell’Iren. Deve prendere il suo bonus luce e gas. Deve farmi vedere le sue bollette. Gliel’ho già detto chi sono. Sono Pada dell’Iren e lei mi deve fare vedere le bollette.

Signor Pada dell’Iren- ho detto infine io- lei ha un nome bellissimo, potrebbe essere benissimo il nome di una città “Pada dell’Iren”, non le sembra il nome di una città? Certo “Pada sull’Iren” sarebbe ancora più bello, ma bello davvero. Dovrebbe crearsi una città e chiamarla “Pada dell’Iren”. Signora- ha detto lui- guardandomi come si guardano i pazzi- Iren è il nome della compagnia per la quale lavoro. Arrivederci, signora, arrivederci.

A proposito della domenica (storie)

La sveglia suona e irrompe nel giorno del riposo e tu apri gli occhi piano, fai fatica come sempre a ricostruire il tuo mondo, sono io- ti dici- sono qui, è domenica, ho ancora sonno. Ti vuoi riaddormentare ma lo schermo del telefono ti notifica dei commenti, li leggi, poi apri altre pagine, poi ti ricordi di guardare se per caso è successo quello che tutti i giornali ti avevano detto di temere. Non è successo, scuoti la testa, odi i giornali. Sei sollevato.

Ti riaddormenti.

Lei non si è mai svegliata, non risponde mai alla rigida chiamata della sveglia, lo sai è compito tuo assicurarti che la giornata inizi. Pensi a quando si sveglierà e ti investirà con le parole dei suoi sogni assurdi, sorridi e la accarezzi, sussurri piano il nome che le hai dato, fino a quando il suo mondo non irrompe e anche lei si assicura di essere lei, di essere lì, accanto a te, in questo giorno del riposo che è la vostra domenica.

La prima parola che dice è “lavatrice”, non lo trovi molto romantico, che romanticismo, amore-le dici, cosa è il romanticismo senza delle mutande pulite?-domanda lei. La baci, scendi dal letto, e stendi la lavatrice, ti piace l’odore del nuovo detersivo che ha comprato.

Fai il caffè e glielo porti a letto, la trovi mentre esaurisce anche lei il rituale mattutino del controllo di un mondo che inaspettatamente sperate uguale a ieri. Che patetici, che codardi.

Il tempo passa e senza nemmeno accorgertene è già l’ora di prendere il computer e cercare il link della tua squadra del cuore, la partita è già iniziata, ma non è successo niente. Non succederà niente tutto il primo tempo, lei ha smesso di starti accanto, è sul divano in salotto legge chissà cosa. Dopo quasi 45 minuti ti manca e vai a sederti accanto a lei, ha il volto corrucciato, guarda con attenzione lo schermo del suo portatile, non sai leggere nel suo sguardo. Guardi anche tu lo schermo, sono delle foto, ritraggono ragazzi simili a te, e- cosa che ti atterra ancora di più- simili a lei, lei pigia con voracità la freccia destra, cambia foto e didascalia, i suoi tempi di lettura sono più veloci dei tuoi, si ferma, legge una lettera, la leggi anche tu. Hai i brividi.

Lei si ricorda dei piatti da lavare, tu ti siedi in silenzio in cucina a bere il tuo latte caldo, hai di nuovo mal di gola- dici. È un gioco crudele- ti dice- se moriamo io, te o altri cento, mille, diecimila come noi non cambia niente. Cambia solo nelle nostre piccole, inutili, vite, ma non importa niente a chi ha il potere, non importa niente al tempo, all’umanità, alla storia, all’universo. Eccolo il suo fatalismo. Non contiamo niente, nessuno-dice- siamo tutti vittime di un gioco crudele. Di un dio crudele a cui non frega niente. Di una storia che può fare benissimo senza di noi. E la vedi lì, davanti al lavello, con gli occhi un po’ racchiusi, tipico del suo sguardo concentrato, che tossisce tutta la sua impotenza e sputa sul giorno del riposo che è la vostra domenica. Te lo dice. Mi sento piccola- ti dice- come quella volta che la violenza l’ho vista così da vicino che mi ha trapassato la cornea, mi ha bruciato il cervello.

Ricomincia il secondo tempo, tu vuoi vederlo, vuoi vivere.

A proposito delle parole.

Quando io ero piccola, in una delle tante case che ho avuto, l’unica in cui c’era uno spazio tutto mio, la mia camera era piena di parole. I quattro muri della mia adolescenza erano pieni di post-it gialli, tra quei fogli appiccicosi c’erano le parole del mio confuso mondo. Non so come, ma avevo la sensazione di poter capire qualcosa solo riempiendo la stanza in cui passavo così tanto tempo di tutte le parole che c’erano dentro la mia testa. Mi sembrava di calmare il caos dentro di me. Ora che sono grande, io resisto ai post-it. Con fatica, ma resisto. Ci scrivo solo le cose che mi dimentico di fare.

Oggi, se io oggi non resistessi, se la mia mania avesse la meglio, io oggi scriverei “rraskapitem”.

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A proposito di vicinanze

Su un muro vicino a casa qualcuno ha scritto recentemente “Bode”, scritto grosso. Io la prima volta che l’ho visto ho avuto un sorriso al  cuore, del tipo ” ihihuhuh uh”. Oggi l’ho rivisto e mi è venuta voglia di aggiungere a “Bode” “cit. I. Lamce”, scritto piccolo.
Bode insieme a dabode sono state le uniche due parole pronunciate da Ismail Lamce, mio nonno, nei suoi ultimi 12 anni di vita. È una parola così famigliare, a cui il mio orecchio è ancora così abituato, da rendermi questa città, che io non riesco proprio ad amare, un po’ più mia.

A proposito della mia giornata di ieri

Tu leggi, studi, poi leggi meglio e studi meglio, ti svegli alle sei, cambi città, alla stazione prendono in giro la tua fede calcistica, ridono ahahaha, ridi anche tu, mandi mail, pensi a progetti, ne scarti qualcuno, cammini, ascolti vecchi album, dici che devi metterne di nuovi sull’mp3, ne scrivi a tua sorella, ti ricorda che c’è internet, dici ok, poi mandi le mail, rispondi alle mail, sorridi a what’s app, leggi articoli scientifici, dici che li devi studiare, pensi che l’unica cosa che ha senso indagare è il cervello, pensi a Bacone, fissi il vuoto, dici wow pensando alla storia degli uomini, chiami il tuo amico, gli dici che sei in città, fissi un appuntamento, sorridi all’edicolante che ti prende in giro per la tua fede calcistica, rubi pezzi di conversazione al bar, mandi mail, pensi a nuovi progetti, ripensi quelli in atto, pensi alle neuroscienze, avresti dovuto studiarle, forse non è tardi, pensi a internet, ancora dici wow, corri alla stazione, cerchi un corso di tedesco, devi saperlo leggere ti dici, che stupenda l’umanità ti dici, rispondi a tua mamma, le dici che sarai lì alle otto, non posso prima, dai mamma le dici, leggi, pensi di cambiare paese, le ferrovie ti fanno sempre questo effetto pensi, migrare di nuovo ti dici, sbuffi, continui a leggere, tuo padre ti aspetta col vocione di sempre e ti dice che sei arrivata troppo tardi, tu gli dai un bacio, tua mamma ti aspetta con le braccia alzate, è contenta, la abbracci forte, ti rimprovera perché la chiami troppo poco, le dai un bacio, pensi che da quando sei al mondo sei la sua promessa di una felicità più felicità, non ti piace ma è così, cenate, tu parli delle cose che stai facendo e di quelle che hai in mente di fare, loro ti ascoltano, ti raccontano storie come sempre, non conosci i protagonisti, non ti interessano ma sei stupita di come li ascolteresti per ore, pensi a quando hai pensato che avrebbero dovuto darti di più, ti vergogni, sono le dieci e mezzo e tua mamma ti parla, ti sembra che stia meglio, ne sei felice, va bene mamma, buona notte le dici, rispondi al suo bacio, accendi la tivù come un riflesso incondizionato, dovrei guardare una puntata di the wire ti dici, ma è una cosa che facciamo insieme ti ricordi, pensi alla ritualità e ai simboli, wow dici ancora, ti trovi davanti la faccia di uno dallo sguardo ottuso, come ne hai visto tanti, come ne hai disprezzato tanti, capisci che l’oggetto della trasmissione sono i rom e se è vero che rubano, non riesci a crederci, sono anni che non vedi un talk politico, ridi quando pensi a politico, ti chiedi se la puntata successiva tratterà l’annoso problema degli americani e se è vero che sono stupidi e viziati come sembrano, senti dire all’uomo dallo sguardo ottuso che i rom sono la feccia della società, non ci credi, lo senti urlare di nuovo che gli zingari sono la feccia della società, in studio c’è una donna sinti e non la vedi picchiare quell’uomo dallo sguardo ottuso, ti arrabbi e ripensi a quella volta che qualcuno ti avevo detto che quelli della tua razza, sì lo avevi sentito dire proprio razza, sono delle merde, ripensi a come ti è salita la rabbia al cervello, a come ti ha offuscato la vista, a come gli hai tirato un calcio diritto veloce in mezzo alle gambe come ti ha insegnato tuo padre quando si preoccupava che tu fossi abbastanza forte da affrontare quelli con lo sguardo ottuso, rivedi i tuoi pugni chiusi così simili alla rabbia di tuo padre, ringrazi il cielo di non aver avuto la sua forza fisica perché altrimenti lo avresti voluto vedere sanguinare, ti fai schifo, ti fa schifo la violenza, sei fiera di quel calcio, sei arrabbiata, vai a letto, non dormi.

A proposito dell’essere grandi.

Mi è capitato recentemente di sentirmi grande. Era il 14 dicembre del 2014, io avevo addosso un delizioso cappotto grigio, era domenica, un giorno grigio, il parcheggio era vuoto di uomini e pieno di macchine e io stavo cercando la mia macchina grigia -che poi proprio mia non è, ma questa discussione sugli aggettivi possessivi interessa solo me e mio padre il giorno in cui tocca pagare l’assicurazione.

C’era un po’ di vento e io soffrivo il freddo, come sempre, e invocavo l’arrivo della primavera- una primavera senza pollini sarebbe l’ideale, mi dicevo. Subito dopo aver formulato ed espresso il rituale brrr ho pensato, guardandomi altezzosa camminare a testa alta nei vetri scuri delle macchine “wow, sono proprio diventata grande”.

Non è stato il fatto di aver trovato subito la macchina a convincermi – anche se era, indiscutibilmente, un segno della mia sopraggiunta maturità. Né il fatto di avere preso qualche chilo a farmi dire che ero grande, ché, ahimé, sempre un corpicino dalle ossa fragilifragili e con una testa piena di capelli spettinati rimango. Non è stato nemmeno l’avere preso delle decisioni e averle comunicate a chi avrebbe gioito, e contemporaneamente sofferto di più, dei passi che stavo per fare- e che poi ho fatto.

È stato- credo – il sentire, toccare con mano, la percezione chiara e distinta che tutto quello che mi gravava e grava sulle spalle, che quello che mi angosciava e angoscia, che tutto quello che io ero e sono, è piccolopiccolo.

Mamma-dice questo ragazzo seduto accanto a me in questo treno che ci riporta a casa-sto malissimo, ho mal di testa, mi sento anche la febbre, credo che sia ebola… forse è meglio se domani non vado a scuola.

Se hai l’ebola-urla così forte lei che sento pure io- non tornare a casa o ci farai morire tutti!